Come sappiamo noi europei abbiamo conosciuto il cacao per mezzo della scoperta dell’“America” ovvero da quando Cristoforo Colombo decise di intraprendere il viaggio verso le Indie partendo verso occidente anziché verso oriente, secondo le rotte tradizionali dell’epoca. Che la terra fosse sferica era quasi un fatto certo, che forse prima di Cristoforo Colombo i Vichinghi avessero trovato delle terre oltre oceano era un altro fatto che qualcuno conosceva, dunque il navigatore Cristoforo Colombo partì con le famose tre caravelle, la Nina, la Pinta e la Santa Maria, quest’ultima ammiraglia della spedizione, e iniziarono a solcare le onde dell’oceano Atlantico.

E’ il 12 ottobre 1492 quando Colombo approda nel “nuovo mondo”. In realtà l’obiettivo di questo viaggio era quello di verificare che ci fosse la possibilità di raggiungere le Indie partendo da occidente ed apparentemente questo target era stato raggiunto.

La sicurezza di aver scoperto le Indie ha provocato un errore linguistico che ancora oggi noi perpetriamo: spesso nel parlare comune quando si parla dei nativi americani si utilizza l’espressione indiani d’America e non appunto nativi o amerindi o meglio sarebbe stato utilizzare i nomi che loro si erano dati. Comunque questo non è l’oggetto di questo libro.

Ora bisognava trovare il modo di rientrare. Dal ritorno da questo primo viaggio verso le “Indie Occidentali” ci si portò dietro tutto l’entusiasmo di aver scoperto una nuova rotta e di aver esteso di molto i confini delle conoscenze dell’epoca, però nulla sul cacao.

Infatti sembra che il primo contatto dell’Occidente con il cacao sia stato sempre da parte di Cristoforo Colombo ma nel 1502 durante il suo quarto viaggio. Tuttavia questo incontro non fu idilliaco. Da un diario di viaggio tenuto da un nipote di Cristoforo Colombo si rileva che durante la navigazione costiera nel centro America degli abitanti del luogo vennero incontro alla caravella di Colombo con le loro piroghe piene di doni per questi semi-dei.

Ma con la foga di arrivare più in fretta e probabilmente un onda più impetuosa fece ribaltare qualche sacco in mare. Subito diversi indigeni si buttarono per raccogliere questi sacchi.

Incuriositi da tanto ardore nel recupero di questi sacchi, Colombo e i suoi uomini vollero vedere di quale merce preziosa si trattasse: all’inizio pensarono a corone d’oro, oppure monete, oppure diamanti, invece furono delusi nel vedere che erano delle misere fave simini ad escrementi di capre.

Gli amerindi gli fecero segno di mangiare questi semi. Il commento scritto sul diario fu lapidario: si tratta più di mangiare da porci che prodotti per il genere umano. Si trattava del cacao.

Eh già, caro Cristoforo Colombo, già non avevi capito che non erano le Indie e poi hai continuato non capendo l’importanza del Cibo degli Dei. Forse ora sappiamo perché nessuno ha voluto dare al nuovo continente il nome di Cristoforo Colombo ma si è aspettato Amerigo Vespucci per chiamarla America.

Per quanto ci riguarda dobbiamo aspettare il 1521 quando Hernan Cortez con due galeoni spagnoli, in fuga da altri galeoni spagnoli perché si era rifiutato di obbedire a degli ordini, sbarca in centro America.

Qui si deve al caso e alla bravura militare di questo comandante che con un “manipolo di uomini” qualche cannone e qualche cavallo riuscì a conquistare un impero enorme.

Tutto il Centro America e parte del nord del Sud America era sotto il dominio degli Aztechi, un popolo guerriero che aveva saputo trarre benefici dalla saggezza di popoli anteriori come i Maja, i Toltechi e gli Olmechi. Questo impero aveva un imperatore che si chiamava Montecuzoma II o Montezuma, come più comunemente lo conosciamo noi.

E’ ovvio che un popolo conquistatore come quello azteco che disponeva di centinaia di migliaia di soldati propri, in più poteva disporre degli eserciti dei popoli sottomessi, non avrebbe mai potuto perdere una battaglia contro un centinaio di uomini, sebbene armati di fucili (ad un solo colpo) un paio di decine di cannoni. Alcuni uomini potevano disporre del cavallo ed indossavano elmi e corazze ma non sarebbe bastato.

Cortez beneficiò di una leggenda azteca che prevedeva che prima o poi, da quella parte del mare (oceano Atlantico) sarebbe tornato il dio Quetzacoal per riprendersi il suo regno che era stato costretto ad abbandonare nell’antichità. Ecco che quando le vedette di Montezuma scorsero questi due vascelli, che avevano enormi vele spiegate al vento, rispetto alle canoe e piroghe che erano abituati a vedere, sembrava loro di essere davanti a delle “astronavi”. Notarono anche che questi soggetti sbarcati da queste enormi navi indossavano delle armature che luccicavano al caldo sole tropicale, alcuni di questi erano sopra strani animali mai visti prima. Che fosse Quetzacoal o no era meglio essere prudenti e dal centro dell’impero arrivò l’ordine di limitarsi a vedere che cosa facevano questi stranieri.

Un’altra circostanza fortunata per Cortez fu che vicino al punto di sbarco si trovava un villaggio il cui popolo accolse subito benevolmente questi forestieri invitandoli a rimanere.

Il secondo giorno di permanenza il comandante Hernan Cortez vide una giovane fanciulla, molto bella, che gli sorrise. Fu amore a prima vista. Questa ragazza, il cui nome forse è stato perso per sempre o forse si trova scritto in qualche pagina di diario di qualche museo, ha avuto un ruolo fondamentale nella storia della conquista dell’impero Azteco da parte degli spagnoli. Infatti questa giovane donna pare fosse molto intelligente e ben presto imparò a parlare lo spagnolo. Lei divenne l’anello di congiunzione tra Cortez e la cultura e la comprensione di questo nuovo mondo.

Qui venne fuori l’abilità militare del comandante spagnolo che si fece spiegare l’ordinamento, gli usi i costumi di questi popoli, le armi che utilizzavano ecc. Ma capì una cosa molto importante: capì che c’era un popolo dominante, gli Aztechi, che soggiogavano tante altre popolazioni e lui era capitato in una di queste. Ben presto lasciò intendere che lui era venuto lì per ridare libertà a tutti i popoli. Quindi convinse la giovane donna, ormai compagna di vita, a procedere verso la strada che portava nel cuore dell’impero Azteco, la sua capitale Tenochtitlan (Oggi la chiamiamo Città del Messico).
A mano a mano che si avvicinava alla capitale dell’impero, Cortez, promettendo a tutti la liberazione, si faceva sempre più popoli alleati che sarebbero stati pronti a combattere al momento opportuno.
Finalmente Cortez arriva a Tenochtitlan e incontra Montezuma. E’ l’incontro tra l’uomo più potente e più ricco di tutto il continente americano e uno dei comandanti di vascello spagnoli che recitava la parte di un semidio mandato dalla cristianità. Cercando così di far combaciare la leggenda di Quetzacoal con la religione dominante in Europa, ma soprattutto con la religione del Re di Spagna e delle Fiandre Carlo V.
Montezuma gli rivelò che le proprie vedette avevano avvistato altri galeoni nelle vicinanze dove era approdato lo spagnolo.
Qui Cortez ha condiviso con Montezuma tutti gli onori e gli agi riservati all’imperatore azteco. Tra questi agi vi era anche quello di sorseggiare il miglior cacao possibile, proveniente dal Chapas o da zone ancora più meridionali dell’impero. Hernan Cortez si innamorò di questa bevanda che gli aztechi chiamavano Xocoatl. Una bevanda semplice, preparata con acqua calda e l’impasto di queste fave di cacao che venivano scaldate e pestate con una specie di mattarello su un tavolo chiamato “metate” unite con acqua, annatto un frutto che deriva dalla Bixa orellana, l’albero dell’Achiote, una pianta tipica dell’Amazzonia, che tende a dare un colore giallo rossiccio, un poco di peperoncino e una frullata per areare il composto e formare una schiuma in superficie. Questa bevanda era chiamata “Il cibo degli dei” e ovviamente era riservata alle classi più agiate. Si ha notizia che l’imperatore azteco si facesse pagare in fave di cacao i tributi che le popolazioni del Chapas dovevano all’impero. Pare anche che il cacao potesse essere apprezzato anche come moneta di scambio con relative valutazioni. Per esempio uno schiavo di bassa lega valeva 200 fave di cacao. L’imperatore oltre a possedere magazzini pieni di fave di cacao possedeva anche un’immensa quantità di oro e questo stimolò il senso di conquista e di appropriazione del comandante spagnolo.
Il palazzo di Montezuma era una fortezza al centro della città di Tenochtitlan che a sua volta era protetta da due cerchi di acqua ricavati dal lago Texcoco collegati da ponticelli semoventi che potevano essere ritirati alla bisogna. Praticamente un palazzo ben fortificato con migliaia di guardie armate a sua volta circondato da una città inespugnabile e difesa dall’esercito più forte. Qui venne fuori tutta l’abilità strategico-militare di Hernan Cortez.
Tradendo la fiducia che Montezuma aveva concesso a Cortez permettendogli di essere ospitato nel proprio palazzo insieme ad una pattuglia di spagnoli armati, il comandante “semi dio” aveva istruito una schiera di attendenti che alcuni cercarono di intercettare i galeoni spagnoli che erano sulle tracce di Cortez per farsi aiutare e altri corsero ad avvertire i capi delle popolazioni oppresse dagli Aztechi (tra cui i Mexica) che il momento della liberazione sarebbe arrivato e che avrebbero dovuto armare tutti gli uomini validi e farli convergere a Tenochtitlan.
In un giorno prestabilito scattò la trappola. Cortez immobilizzò Montezuma, poi fece lanciare segnali dal palazzo affinchè gli spagnoli iniziassero a sparare con i pochi cannoni disponibili ma tutti in sequenza. Più che danni veri e propri, il frastuono di queste armi nuove disorientò gli Aztechi. Contemporaneamente un’orda di centinaia di migliaia di uomini, armati come potevano, si lanciarono all’attacco del palazzo. All’inizio fu una carneficina di poco a favore degli aztechi poi arrivarono anche gli altri cannoni e soldati spagnoli e ribaltarono le sorti del conflitto. Il resto sappiamo come è andato a finire.
Nel 1523 Cortez rientra in Spagna e per farsi perdonare dona al Re Carlo V la sua conquista chiamata Nueva Espana.
Carlo V vedendo tutto quell’oro e sapendo che ce n’era altro da prendere, non solo perdona Cortez ma lo nomina Vice-Re dei nuovi territori.
Hernan Cortez ritorna diverse volte nella Nuova Spagna ma oltre a portare con sé l’oro che trovava prese anche diversi sacchi di cacao e nel 1527 ne fa dono ufficiale a Carlo V.
Vi sono diverse tracce storiche di questi incontri in cui Cortez dona a Carlo V del cacao, ultimo dei quali nel 1529.
Anche da qui nasce un mio sillogismo sulla presenza del primo cacao in Italia.
Fino a un po’ di tempo fa ero incerto su quale fosse la data e il luogo della prima presenza del cacao in Italia perché tale primato era conteso tra Firenze e Torino. Successivamente alla contesa ho letto qualcosa anche di Modica, Roma e Venezia. Le più accreditate erano Firenze tramite un commerciante, un certo Francesco Carletti che al ritorno di un suo viaggio intorno al mondo durato sette anni, per una parte fatto insieme al padre Antonio, morto in Giappone, donò a Cosimo I de Medici nel 1606 del cacao proveniente da una regione al confine tra Guatemala e Messico nelle cui zone era utilizzato come moneta di scambio e per la preparazione di una bevanda della quale tutti andavano ghiotti.

Prima ancora di Firenze si parla della capitale del cioccolato, cioè Torino.
Pare che sia stato il Duca Emanuele Filiberto di Savoia detto Testa ‘d Fer, abile condottiero alleato e parte dell’esercito spagnolo e ottimo governatore, ad introdurre nella sua nuova capitale, Torino, il cacao. Il Duca conobbe il cacao durante la sua permanenza in Spagna e ne rimase “stregato” tanto da osare di eludere il monopolio spagnolo e trafugare in Piemonte una buona quantità di cacao nel 1563. Nel 1585 il figlio di Emanuele Filiberto, Carlo Emanuele I sposa Caterina Michela d’Asburgo, figlia di Filippo II di Spagna e qui il cacao entra ufficialmente in Piemonte. Anche se bisogna aspettare il 1678 per avere il consolidamento ufficiale dell’uso pubblico del cioccolato a Torino, anno in cui venne concesso ad Antonio Ari la prima licenza per vendere la cioccolata in bevanda.

Ecco che entra in scena anche Bologna.

Abbiamo detto che Carlo V, Re di Spagna e delle Fiandre, incamera tantissimo oro dalle “Indie Occidentali” e questo gli permette di accrescere la sua potenza militare, di sconfiggere i francesi in diverse battaglie e comprare il voto dei Principi Elettori Sassoni per farsi incoronare Imperatore. Costringe il Papa Clemente VII a venire al confine dello Stato della Chiesa, Bologna, dove dal 1364 esisteva un’enclave spagnola, Il Collegio di Spagna il cui nome esteso è Real Colegio Mayor de San Clemente de los Espanoles voluto dal Cardinale Egidio Albornoz.

A Bologna, nella Basilica di San Petronio, il 24 febbraio 1530 Carlo V viene incoronato Imperatore, si dice che nel suo regno, data la sua vastità, non tramonti mai il sole.

Per prepararsi a tale evento, il Papa Clemente VII giunse a Bologna il 20 ottobre 1529 e Carlo V giunse via mare a Genova e poi proseguì per Piacenza fino a Borgo Panigale ed infine in Piazza Maggiore a Bologna (lo stesso posto in cui dal 2006 a metà novembre si svolge il CIOCCOSHOW) dove arrivò il 5 novembre 1529.

Una volta decisa la data di incoronazione, la data del compleanno di Carlo V, 24 febbraio, per dovere di cerimoniale, si svolsero diverse prove. Queste prove erano sia relative all’atto stesso dell’incoronazione ma prevedevano anche tutti i particolari di contorno. Tra questi, molta importanza aveva il pranzo. Era usanza dell’epoca stupire i commensali con portate esotiche e abbondanti per sottolineare l’opulenza e l’importanza dell’ospite. In questo caso avevamo i due sovrani più importanti d’Europa. Inoltre partecipavano al desco tutti i nobili italici e principi sassoni. Quale occasione migliore per offrire “Il Cibo degli Dei” appena scoperto, quale cibo simbolico più appropriato poteva essere servito.

Dunque è molto plausibile che in un evento così importante questo cacao, o meglio, questo Cibo degli Dei abbia fatto la comparsa ufficiale.

Ad onor del vero nei documenti visti finora non c’è traccia di questo alimento nel pranzo ufficiale tuttavia importanti esperti dell’Università di Storia Medievale di Bologna confermano che il tutto sia più che plausibile. Inoltre vi sono da considerare un paio di cose molto importanti:

1^ Non si sa esattamente come sarebbe stato chiamato questo alimento. Figuriamoci che circa un secolo dopo veniva ancora chiamato il Brodo Indico. Mentre nel ‘700/’800 spesso veniva chiamato Caracca per identificare il cacao che proveniva dal porto di Caracas.

2^ Oltre al menù ufficiale, le prove che furono effettuate sono state tantissime e nulla vieta di pensare che, anche qualora il cacao non fosse apparso nel menù ufficiale, il cacao fosse comparso nei menù di preparazione nelle diverse prove oppure semplicemente per contornare qualche altro piatto.

Dunque dopo Madrid, forse dopo Siviglia, la terza città europea dove si è consumato il cacao è stata Bologna.

Intanto si ha notizia che dal 1580 vengono registrati i primi carichi di cacao nel porto di Siviglia. Questo significa che il prodotto inizia ad essere apprezzato. Anzi la Corte spagnola si vantava di poter utilizzare questo raro ed esotico prodotto in un modo perfetto tanto da creare una sorta di invidia tra le altre corti europee.

Di fatto gli spagnoli per tanto tempo hanno conservato una sorta di monopolio sull’utilizzo del cacao, di cui erano anche gelosi e orgogliosi. Col cacao nelle loro corti, ammaliavano nobildonne e nobiluomini, sicuramente il cacao preparato alla spagnola, con un “mulinillo” che creava una schiuma buonissima, ha contribuito a piegare ai voleri della Corona spagnola ben più di un potente.

Cosimo III de Medici volle ottenere prestigio anche attraverso il cacao. Incaricò Francesco Redi, Credenziere, Odorista, Scienziato, Farmacista, Letterato ed altro, della propria corte, di inventare una ricetta che potesse superare per piacevolezza quella spagnola.

Nel giardino de Boboli venivano coltivati dei gelsomini. Cosimo de Medici era così orgoglioso dei propri gelsomini che ne vietò la coltivazione fuori dal proprio giardino.

Francesco Redi utilizzò questa esclusiva eccellenza per profumare, ovvero aromatizzare il cacao con i petali di gelsomino. In pratica si preparavano delle scatole che contenevano petali di gelsomino di primissima qualità, freschi e profumatissimi. In questa scalola si riponevano delle ballottino di fave di cacao pestate a mortaio. I petali veniva cambiati ogni giorno affinchè il profumo all’interno della scatola fosse sempre intenso. Siccome il cacao assorbe moltissimo gli odori, dopo un trattamento in scatola di una decina di giorni con i fiori di gelsomino si poteva ricavare un cacao aromatizzato delicatissimo.

Redi e Cosimo de Medici raggiunsero il loro scopo. Il nobile toscano fu così orgoglioso di questa ricetta che nessuno avrebbe potuta rivelarla ai “concorrenti”. Per essere più convincente delle proprie intenzioni emanò una legge che prevedeva la pena di morte per chiunque, di coloro i quali erano a conoscenza della ricetta, avrebbe svelato i trucchi e le dosi. Questa pena di Morte rimase in vigore per almeno un secolo.

Francesco Redi tra i suoi numerosissimi scritti, tra cui il più noto è “Bacco in Toscana” del 1685, annota la ricetta ammettendo come in Spagna si preparasse una cioccolata perfetta ma lui riuscì a migliorarla per mezzo della stessa lavorazione perfetta ma aggiungendo “scorze di cedri e limoncelli, cannella, Vaniglia perfetta, ambra e aggiungendo anche quella squisita gentilezza del profumo di gelsomino.”

Verso metà del XVII secolo, più o meno velocemente la cioccolata si diffuse in tutte le corti europee. In Francia pare che sia stato il cardinale Richelieu il primo a consumare la cioccolata e nel 1659, mentre Maria Teresa d’Asburgo, moglie di Luigi XIV Re Sole, introdusse il consumo della cioccolata come usanza frequente.

Anche in Olanda, Inghilterra e Germania inizia la diffusione di questo prodotto.

A Londra il grossista di cacao Francesco Bianco nel 1693 apre la Mrs White’s Chocolate House, un locale in cui si poteva degustare un’ottima cioccolata calda accompagnata con biscotti e pasticcini e disquisire in tranquillità su importantissimi argomenti faceti.

Intanto il progresso tecnologico sta galoppando, il vapore è la nuova energia, la forza che può muovere persino delle locomotive. Così anche nel cacao si utilizzano delle novità. Nel 1723 Walter Churman inventa la Pressa Idraulica. Questa aiuterà a spremere meglio le fave di cacao.

In Francia nel 1732 M. Dubuisson inventa un tavolo riscaldato con il carbone per poter lavorare il cioccolato senza che questi con l’abbassamento della temperatura si solidificasse.

Nel 1778 il francesce Doret inventa una macchina per la produzione del cacao capace di macinare la pasta di cacao e inserire già la vaniglia. Attraverso la macinazione con macchine a vapore si riesce ad utilizzare una maggiore pressione sulle fave e in qualche caso si sperimenta la sgrassatura del cacao.

A Bologna nel 1787 muore Francisco Javier Clavijero, figlio di un colone spagnolo, ha vissuto fin dalla nascita nelle terre amerinde ed ha avuto la possibilità di imparare la lingua indigena azteca più parlata, il Nahuatl. Viaggiando con il padre tra un pueblo e l’altro e entrando successivamente nella Compagnia di Gesù. La sua grande esperienza di vita vissuta tra gli abitanti del nuovo continente, avendo conosciuto in prima persona stili di vita e usanze di questo nuovo popolo, si è sentito in dovere di scrivere una Storia dell’Antico Messico (o Storia Antica del Messico) per correggere quei pregiudizi che descrivevano i nativi americani come popoli rozzi ed incivili, poco più che proto-scimmie.

Il Gesuita venne a Bologna dove continuò quella indagine sulle abitudini e sulle notizie del popolo Azteco. Le sue instancabili ricerche si concentrarono in particolare nelle biblioteche di Bologna, Cesena, Ferrara, Firenze, Milano e Roma. Tra tutte le carte trovò anche tracce di un manoscritto di un missionario francescano spagnolo, Bernardino de Ribeira nato a Sahagùn nel 1499, il quale scrisse il “Codice Fiorentino” (successivamente seguì la versione in castigliano “ Historia general de la cosas de nueva Espana) che fu messa all’indice nel 1577 da Filippo II. Questo è probabilmente il trattato più aggiornato e reale sulle notizie della civiltà azteca in quanto è abbastanza contemporaneo agli avvenimenti successi dopo la caduta dell’impero di Montezuma.

Da queste lunghe ed approfondite ricerche emerge una realtà complessa e piene di apparenti contraddizioni. Clavigero descrive riti barbarici ma anche usi e costumi sofisticati, tra questi anche l’utilizzo del cacao e l’attenzione per la natura.

Mi piace riportare una sua frase che dice che per capire gli aztechi bisogna vivere in Italia.

Nel 1796, come abbiamo detto nasce a Bologna la ditta Majani e nel 1826 la famiglia Caffarel acquista la pressa idraulica di Doret e crea la prima industria italiana del cioccolato.

Intanto anche in Inghilterra, precisamente a Bristol, Joseph Fry smette di pressare le fave di cacao a mano inizia ad utilizzare una macchina a vapore. Suo figlio, Francis Fry nel 1846 produce la prima tavoletta di cioccolato.

In alcuni libri viene scritto erroneamente che Francis Fry ha inventato il cioccolato solido. In realtà potremmo attribuire a Doret questo primato. Comunque quando Francis Fry iniziò a produrre le tavolette di cioccolato la ditta Caffarel era già da vent’anni che produceva cioccolato solido sottoforma di praline i Givu. Inoltre, già nel XVII secolo, i pellegrini che percorrevano la via francigena o la via per Santiago o altri percorsi che duravano giorni, non potendo portare con sé danari o valori per via dei tanti briganti, portavano con sé pani caci e cacao in pasta sottoforma di ballottine, Infatti nella bisaccia bisognava portare poco peso e prodotti che riempivano la pancia e che davano energia ma che non fossero appetibili per i malfattori.

Come sappiamo anche la Chiesa ha avuto un ruolo importante nella diffusione del cacao.

In primo luogo pare che sia proprio merito di un convento di suore insediato nel nuovo mondo che abbia per la prima volta aggiunto lo zucchero al cacao producendo quello che tecnicamente si chiama cioccolato. Infatti gli aztechi non conoscevano lo zucchero mentre gli spagnoli l’avevano conosciuto fin dall’ 800 dagli arabi.

C’è anche un aneddoto che racconta come in alcuni casi, alcuni uomini di chiesa si siano schierati contro la cioccolata ma che non abbiano avuto un gran successo. La leggenda dice che in un pueblo in Messico, San Cristobal, alla domenica durante la funzione religiosa in chiesa, era d’uso, da parte delle mogli dei coloni, farsi preparare delle tazze di cioccolata spumosa e fumante. Pare che un Cardinale sentite queste voci volle andare di persona per sincerarsi di cosa effettivamente accadesse durante la messa. Visto lo “spettacolo” rimosse il prete che aveva concesso tale lascivia. In attesa del sostituto decise di officiare lui stesso le funzioni liturgiche e ripristinare l’ordine. Questo Cardinale disse messa per due o tre settimane poi venne trovato giacente in sagrestia avvelenato con una tazza di cioccolato. Inutile dire che il sostituto, sotto la pressione delle mogli dei coloni, non vietò più l’utilizzo del cioccolato.

Ma uomini di chiesa e alcuni “benpensanti” iniziarono a nutrire dubbi sulla moralità di questo prodotto che stuzzicava gli appetiti sessuali. Tuttavia l’uso della cioccolata calda si diffuse così tanto che proprio la Chiesa si chiese se fosse opportuno assumere della cioccolata prima della Comunione e durante i periodi di vigilia e di Quaresima.

Pare una cosa banale ma vennero scomodati personaggi come il Cardinale Francisco Maria Brancaccio e il Cardinale Lambertini; quest’ultimo divenuto Papa col nome di Benedetto XIV (17 agosto 1740) mise definitivamente fine alla questione se la cioccolata rompesse il digiuno o no con una Bolla che affermava che “liquidum non frangit jejuneum”. 

La leggenda dice che in un pueblo in Messico, San Cristobal, alla domenica durante la funzione religiosa in chiesa, era d’uso, da parte delle mogli dei coloni, farsi preparare delle tazze di cioccolata spumosa e fumante. Pare che un Cardinale sentite queste voci volle andare di persona per sincerarsi di cosa effettivamente accadesse durante la messa. Visto lo “spettacolo” rimosse il prete che aveva concesso tale lascivia. In attesa del sostituto decise di officiare lui stesso le funzioni liturgiche e ripristinare l’ordine. Questo Cardinale disse messa per due o tre settimane poi venne trovato giacente in sagrestia avvelenato con una tazza di cioccolato. Inutile dire che il sostituto, sotto la pressione delle mogli dei coloni, non vietò più l’utilizzo del cioccolato.

Ma uomini di chiesa e alcuni “benpensanti” iniziarono a nutrire dubbi sulla moralità di questo prodotto che stuzzicava gli appetiti sessuali. Tuttavia l’uso della cioccolata calda si diffuse così tanto che proprio la Chiesa si chiese se fosse opportuno assumere della cioccolata prima della Comunione e durante i periodi di vigilia e di Quaresima.

Pare una cosa banale ma vennero scomodati personaggi come il Cardinale Francisco Maria Brancaccio e il Cardinale Lambertini; quest’ultimo divenuto Papa col nome di Benedetto XIV (17 agosto 1740) mise definitivamente fine alla questione se la cioccolata rompesse il digiuno o no con una Bolla che affermava che “liquidum non frangit jejuneum”.  Dopo che le maldicenze sul cioccolato si sono sopite, la cioccolata spopola e in ogni cucina delle persone abbienti di tutta Europa vi era una cioccolatiera.

Nel 1760 a Venezia aprono i primi locali dove si consuma caffè e cioccolata. Anche Giacomo Casanova utilizza la cioccolata per ammaliare le sue conquiste.

Anche il cioccolato inizia ad essere consumato ma la cioccolata liquida si avvale di un’ulteriore invenzione che rende più facile l’utilizzo del cacao.

Nel 1828 il chimico olandese Conrad Van Houten con una pressa idraulica a vite inventa un procedimento, detto Ducth, che, isolando il burro di cacao dalla massa di cacao e frantumando quindi questa massa poi alcalinizzata, ha creato il cacao in polvere. 

Nel 1830 Charles Amédée Kohler la Cioccolateria svizzera Kohler di Vevey inserisce la frutta secca nel cioccolato. Intanto nei paraggi, a Corsier sur Vevey, Francois Luis Cailler, dopo aver lavorato e conosciuto il cioccolato presso la fabbrica italiana Caffarel, compra un laboratorio che utilizzava il cacao, il Chenaux Zeler mill e lo trasforma nella prima fabbrica di cioccolato svizzera.

Nel 1867 il proprietario della ditta italiana Caffarel inventa un nuovo tipo di givù dando la forma a barchetta del cappello della maschera piemontese Jean de la Duja (italianizzato in gianduja) nasce il Gianduiotto.

Nel 1867 sempre in Svizzera, il farmacista chimico Henry Nestlè inventa il latte in polvere e utilizza questa invenzione insieme al Maestro Cioccolatiere Daniel Peter e produce il primo cioccolato al latte. Peter e Kohler collaborano insieme creando la Societè general du chocolat. Poi tutti e due, e anche Cailler, entreranno nella galassia Nestlè.

Nel 1869 un altro svizzero, Rudolf Lindt inventa un procedimento che permette alla massa di cacao di sciogliersi bene e di mescolare insieme lo zucchero, aggiungendo del burro di cacao, creando una massa fluida che si scioglie benissimo in bocca. Questo procedimento si chiama concaggio. In virtù di queste invenzioni, per decenni la Svizzera è stata considerata, a ragione, la patria del cioccolato. Mentre oramai la cioccolata e il cioccolato sono una tradizione radicata presso la nobiltà in Europa inizia a farsi strada il consumo del cioccolato solido e della cioccolata liquida anche fra la borghesia e presso quelle nuove classi di imprenditori e commercianti che anelano ad atteggiarsi a nobili e ad imitarne i comportamenti di classe. Verso la fine del 1800 a cavallo con il 1900 è un fiorire di locali o club privati che nelle grandi città ospitano i grandi prodotti di cioccolato e cioccolata. In questi decenni molte aziende di cioccolato diventano delle vere e proprie industrie e iniziano ad ingaggiare degli artisti per promuove con manifesti d’autore i loro prodotti. Infatti in questo periodo la pubblicità del cioccolato sia nelle confezioni sia nei poster sono quasi tutte opere di qualche artista che in seguito diventerà famoso.

Nel periodo che va dalla grande crisi del 1929 alla seconda guerra mondiale il consumo del cioccolato e della cioccolata non è calato molto, tuttavia è ritornato ad essere un prodotto molto elitario per via del suo costo. Tuttavia anche nel periodo bellico il cioccolato è stato molto apprezzato e nella mia mente ho ancora i ricordi dei miei genitori e delle persone che hanno vissuto l’epoca della Liberazione, quando gli americani distribuivano barrette di cioccolato lanciandole dalle Jeep. Pensate anche al valore psicologico e simbolico di questa azione. E’ come dire: Ora basta sofferenza è arrivata la pace, l’allegria e il piacere.

Ovviamente il cioccolato è entrato anche nella storia del cinema; popolarissimi sono i film che dedicano ampio spazio al piacere del cioccolato, cito i più famosi: Willy Wonka e la Fabbrica del Cioccolato, versione con Gene Wilder del 1971 e il remake del 2005 con Johnny Depp (entrambi tratti dal romanzo di Rohal Dahl del 1964) nei quali si avvera il sogno di un ragazzo, Charlie, di poter entrare in una fabbrica di cioccolato e scoprire leccorniosi e inaspettati segreti tra i quali la presenza di strani piccoli personaggi, gli Humpa Lumpa, una laboriosa popolazione salvata dall’estinzione da Willy Wonka il cui premio più grande è il cacao.

Indimenticabile è l’immagine dal film del 1984 “Bianca” di Nanni Moretti in cui il protagonista, un professore di matematica (interpretato dallo stesso Nanni Moretti) elenca la crema spalmabile come una delle 5 cose per cui vale la pena vivere.

Tratto dal libro del 1999 di Joanne Harris con l’omonimo titolo esce nel 2000 il film “Chocolat” con la bravissima interprete Juliette Binoche e la partecipazione di Johnny Depp.

Qui è la magia del cioccolato insieme a tradizione e sapienza di Vianne, l’affascinante Maestra Cioccolatiera, a modificare per sempre le abitudini di un paesino nel nord della Francia. I morigerati abitanti, guidati da un Sindaco-padrone bacchettone e infelice, piano piano cedono alle lusinghe del piacere di praline artigianali ed esclusive ricette per la cioccolata calda finchè anche il Sindaco stesso non cede nel peggiore dei modi.

Ottimo è anche il film “Lezioni di Cioccolato” (2007) in cui Nero Marcorè è il Maestro Cioccolatiere che insegna i segreti del cioccolato agli allievi (Violante Placido, Luca Argentieri e altri) che devono prepararsi per un concorso.

Anche in passato vi sono stati artisti che hanno trovato spunti sul cioccolato o la cioccolata. Per esempio Carlo Goldoni in diverse sue commedie esalta il piacere e le virtù della bevanda.

Wolfang Amadeus Mozart in “Così fan tutte” sottolinea il desiderio della vivandiera che serve la cioccolata a tutti i signori ma non rimane mai nulla per lei stessa.

Anche l’arte subisce il fascino sublime del cibo degli Dei.

Oggi più che mai c’è bisogno di cioccolato e sia gli artigiani che le industrie propongono continuamente delle novità cercando a volte di orientare e spesso di seguire i gusti del pubblico. Le novità spesso sono solo dei restyling di prodotti classici tuttavia ultimamente il cioccolato sta percorrendo trend interessanti. Il consumo di cioccolato biologico per esempio sta crescendo tantissimo in tutto il mondo ma anche il cioccolato funzionale, per esempio barrette proteiche. Il consumo della pralineria sta crescendo ma solo nei paesi più evoluti. L’abbinamento cioccolato e frutta ormai è un classico ma ora iniziano abbinamenti con cioccolato e piante. In Colorado USA hanno liberalizzato il consumo di marjuana e il cioccolato alla marjuana sta diventando un cult. In Europa sta crescendo il consumo della canapa (senza il principio THC) e stanno diventando diverse le ricette di cioccolato con semi o olio di canapa. Un’altra tendenza è la ricerca di cioccolate prodotte con cacao monorigine anziché da generiche miscele.

Forse il modo migliore per farsi un’idea di quello che gli artigiani del cioccolato stanno inventando è quello di partecipare alle grandi feste del cioccolato artigianale come il CIOCCOSHOW di Bologna o anche altre che oramai si svolgono in tutte le piazze d’Italia, dove con il pretesto di farsi un giro in un centro città si ha la possibilità di avere un panorama del cioccolato italiano racchiuso in una piazza e qualche strada, giusto una bella, dolce goduriosa passeggiata.